di Pierangelo Sequeri in “Avvenire” del 22 febbraio 2015
Nel carrozzone culturale dell’Occidente si pretende che riusciamo a parlare contemporaneamente, e senza batter ciglio, due linguaggi contrari. Uno dice che, se vogliamo essere veramente umani, dobbiamo cercare di essere totalmente liberi; l’altro che, se vogliamo essere razionali, dobbiamo accettare di essere totalmente condizionati. Il primo linguaggio istruisce la politica (corretta e democratica, s’intende) e parla secondo la grammatica della libertà come valore assoluto: tutto deve essere scelta, decisione, autocoscienza, autonomia, creatività. Nel suo mondo ideale di riferimento, l’uomo è un individuo senza vincoli condizionanti e senza moralità precostituita, dove la regola d’oro per costruire regole è: la mia libertà finisce solo là dove incomincia la libertà dell’altro (avete mai pensato quale straordinario incentivo è nascosto qui, per infinite guerre di conquista di tutti i nostri piccoli «ego», in cerca di spazio vitale a spese dell’altro?). La seconda grammatica parla il linguaggio della scienza (dura e pura, si capisce). In questa lingua si lascia ormai intendere che le pretese di libertà e di auto-dominio sono destinate a cadere, una ad una, sotto i colpi di un sapere rigoroso che svela le condizioni pre-umane o post-umane – biochimiche, neurogenetiche, ecologiche, cibernetiche – dei nostri comportamenti, pensieri, intenzioni. La cognizione di questi determinismi (complessi e flessibili, certo, in ogni caso organici e materiali) in realtà non svelerebbe semplicemente le cause (è già una grossa pretesa!), ma rivelerebbe anche il senso di tutto il mondo umano che, fino a ieri, abbiamo riconosciuto come mondo dello spirito, della coscienza, del pensiero. Ossia il mondo della libertà creatrice e della legalità del senso. Non pensate subito e solo a religione e morale. Vale anche per l’arte, il diritto, i legami sociali, l’educazione dell’uomo, l’affinamento dello spirito, la grandezza d’animo. Mi pare abbastanza evidente che questa pretesa di un pensiero unico che ci impone di tenere gli opposti diffonde un disagio innominabile e, al tempo stesso, è fonte (inconsapevole) di aggressività e frustrazione. Quella strana politica della libertà ci appare sempre più illusoria. Cerchiamo di volerne di più, perché ci sentiamo sempre più ingabbiati. E al tempo stesso ci lamentiamo perché pensiamo che ce ne sia anche troppa, per chi ormai fa quello che vuole. Siamo tentati di rifugiarci nelle certezze della scienza e nelle risorse della tecnica. Sappiamo bene che le loro soluzioni sono di livello molto più basso, rispetto alle attese che nutriamo nei confronti della politica e della società. Però almeno – si dice – abbiamo qualcosa di sicuro (purtroppo non così sicuro). Il messaggio subliminale che ci arriva da quelle parti, oltretutto, contiene un veleno nella coda. Forse possiamo darti più gradi di benessere, ci dicono, però devi rinunciare totalmente ai valori che hai coltivato sin qui: altruismo, affetti, senso della vita e della morte, dignità del sacrificio e onore della giustizia. E molte altre qualità ancora (per non parlare della fede e della morale). Si tratta solo di calcolare vantaggi e svantaggi del destino genetico e ambientale che ti è assegnato, e giocarteli con la migliore astuzia possibile. In realtà, né la politica né la scienza sono nate in questo modo. Né potrebbero vivere in questo modo. Il fatto è che a parlare sono le parti di una filosofia rozza e prepotente, inventata dall’economia, che si è appoggiata come un parassita alla politica e alla scienza. Ora, poiché la politica e la scienza hanno perso dimestichezza con la filosofia (per non parlare di teologia, musica, poesia e in generale dei racconti della vita reale degli umani), esse sono diventate poco scaltre nel riconoscere la cattiva filosofia che le abita. E la teologia? Certo, di parassiti ne ha contratti. Eppure anche oggi l’esistenza di un pensiero, abbastanza sofisticato e scaltro da non cadere nella trappola dei due linguaggi parassiti, è corposa. Parti cospicue e intelligenti del pensiero laico mettono a fuoco con grande profondità l’improponibilità di un umanesimo che voglia costruirsi annullando l’ascolto dell’esperienza religiosa e separandosi dalla ricerca di un’etica comune. È necessario che la teologia resista alla tentazione di arroccarsi sul glorioso passato di una visione del mondo omogenea con la religione; ma è anche necessario che si disincanti dall’interlocutore fasullo che i tromboni mediatici indicano come ambasciatore della ragione politica e scientifica che pretende di rappresentare l’umano che avanza.